Premessa
Il riscatto dei ciechi in Italia è, storicamente, opera dell'Unione Italiana dei Ciechi che ha condotto, nel corso del tempo, battaglie decisive per garantire a questa minoranza di cittadini il diritto all'istruzione e al lavoro, premessa indispensabile per la loro integrazione sociale.
All'inizio del secolo XX i ciechi, inabilitati dal Codice Civile, erano condannati a vivere in condizioni di miseria e di povertà. Gli istituti ad essi dedicati, pur presenti in gran parte del territorio nazionale, erano unicamente dei ricoveri da cui gli ospiti uscivano, tranne rare eccezioni, per suscitare pietà in occasione di qualche manifestazione di beneficenza o di qualche funerale.
Oggi i disabili visivi sono in grado di studiare nella scuola di tutti; occupano dignitosi posti di lavoro; sono integrati nella società, anche se molti sono ancora gli ostacoli da superare per il conseguimento delle pari opportunità.
Nata e cresciuta come "associazione di rappresentanza", l'Unione Italiana dei Ciechi ha saputo promuovere, presso le pubbliche Istituzioni, le legittime aspirazioni dei disabili visivi ad essere cittadini tra i cittadini e ha garantito i servizi necessari a concretizzare tali aspirazioni, favorendo, nello stesso tempo, la costituzione di altre Istituzioni con specifiche finalità: la Federazione Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi, La Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita", prima, l'Istituto per la Ricerca, la Formazione e la Riabilitazione (I.Ri.Fo.R.), l'Unione Italiana Volontari pro Ciechi (Un.I.Vo.C.), poi.
In questa sede insisteremo, soprattutto, sulla storia dell'Unione Italiana dei Ciechi, che coincide con la storia della emancipazione dei minorati della vista, ma presenteremo anche una scheda sintetica per la Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" che, pur essendo nata - per così dire - da una costola dell'Unione, merita considerazioni più dettagliate rispetto ai cenni contenuti nella storia dell'Unione.
L'Unione Italiana dei Ciechi
L'Unione Italiana dei Ciechi nasce a Genova il 26 ottobre del 1920 come capolavoro di interpretazione storica e di genialità creativa. Aurelio Nicolodi, insieme con un gruppo ristretto di amici che, come lui, nella guerra appena conclusa avevano perduto la vista, comprende che la cecità acquisita nei campi di battaglia costituisce un credito di enorme valore morale e sociale, un patrimonio ideale la cui consistenza poteva essere facilmente misurata con il metro del sentimento nazionale e patriottico dominante in quegli anni. Erano da poco terminate le Conferenze della pace che avevano restituito all'Italia i territori irredenti consentendo il compimento dell'unità nazionale avviata nel Risorgimento, ma limitando, nello stesso tempo, la realizzazione di aspirazioni espansionistiche che andavano al di là dell'obiettivo raggiunto. La consapevolezza, sempre più radicata e diffusa, della "vittoria mutilata", nella sua doppia valenza di esaltazione e di depressione, rafforza e consolida in molti settori della società civile e dello schieramento politico il prestigio di coloro che hanno duramente pagato per il bene della Patria. Nicolodi lo comprende lucidamente e, mentre altri avrebbero strumentalizzato le tensioni crescenti nel Paese per farle confluire nel calderone nazionalistico e irrazionalistico dell'arditismo e del fascismo, egli avrebbe speso tutto il suo prestigio al servizio di un progetto ispirato ai valori della solidarietà e della giustizia sociale. In altri termini, la capacità di comprendere lo spirito del tempo e il senso della storia si traduce in un progetto geniale di riscatto e di emancipazione di uomini condannati come lui a vivere nell'ombra e a subire tale condizione - e qui stava la differenza - come stigma di esclusione sociale e di emarginazione, perché privi di quella luce che in lui derivava dal sacrificio compiuto e dalla legittimazione che esso assumeva nel contesto dei valori dominanti. Il cieco di guerra, acuto interprete del suo tempo, avrebbe fatto, dunque, della sua condizione umana ed esistenziale, uno strumento di generosa condivisione e di costruzione di una alternativa radicale che, negli anni, si sarebbe rivelata geniale, perché capace di ribaltare la collocazione sociale dei ciechi civili italiani e, conseguentemente, la loro immagine, il loro vissuto, avviando un irreversibile processo di superamento dell'emarginazione e di promozione dell'integrazione. Su tale felice interpretazione della realtà storica del primo Dopoguerra si basava, dunque, il coraggioso progetto fondativo dell'Unione Italiana dei Ciechi, concepita come strumento per traghettare i privi della vista dall'orizzonte immobile e improduttivo della pietà e della commiserazione alla ribalta di un impegno attivo e determinante per il proprio avvenire di uomini e di cittadini. Si trattava, insomma, di abbandonare il terreno franante della sterile filantropia pietistica per concepire un disegno fondato su una valutazione rigorosamente scientifica delle potenzialità dei ciechi e degli spazi operativi che ne consentono la piena espressione per la crescita personale e l'integrazione nella società. Con la fondazione dell'Unione Italiana dei Ciechi, che nel 1923 si sarebbe costituita in Ente morale, i non vedenti italiani avevano a disposizione uno strumento di aggregazione, di elaborazione, di tutela e di rappresentanza: erano finalmente in grado di porsi come interlocutori attivi nei confronti delle Istituzioni e della società civile, di gestire in prima persona i loro problemi, prima affidati unicamente alla beneficienza di qualche filantropo, e di essere, quindi, protagonisti del loro riscatto. Su questa strada che conduce, faticosamente, l'impostazione delle problematiche della cecità dalla pietà alla scienza, particolarmente proficuo fu l'incontro tra Nicolodi e Augusto Romagnoli. Egli non solo seppe comprendere che la condizione imprescindibile per il riscatto dei ciechi andava identificata nel superamento dell'ignoranza e nell'istruzione, ma fu in grado di elaborare una progettualità pedagogica fondata sul rigore del metodo scientifico e, per questo, dotata di straordinaria efficacia didattica. Gli Istituti per ciechi che, all'inizio del secolo, erano semplici ospizi privi di aperture verso la società e di sbocchi verso il futuro, diventano luogo di educazione e di istruzione, strumento, insomma, di crescita, di maturazione e di apprendimento. In stretta connessione con l'istruzione, il secondo ineludibile passo verso l'integrazione sociale è rappresentato dal lavoro: a questa esigenza, fondamentale per ogni cittadino, l'Unione fornisce una prima rilevante risposta con la costituzione dell'Ente Nazionale di Lavoro per Ciechi del 1934, che costituirà una prima esperienza di lavoro integrato fra non vedenti e vedenti e che consentirà a non pochi privi della vista di affermare la propria dignità di uomini liberi dal bisogno e dalla beneficenza altrui.
Negli anni della Seconda Guerra Mondiale, ormai non più lontana, i laboratori dell'Ente, specialmente quelli destinati alla fabbricazione di scarpe per i militari, avrebbero funzionato a pieno ritmo incrementando l'occupazione di lavoratori non vedenti. Ma gli anni della guerra consentono a Nicolodi di segnalare una qualità, forse insospettata, dei privi della vista, chiamandoli, come aereofonisti volontari, a collaborare con l'esercito italiano al servizio della contraerea e della difesa del territorio nazionale dall'aviazione nemica. I ciechi in grigio-verde potevano così offrire una nuova testimonianza delle loro capacità e del loro impegno ad essere uomini tra uomini anche nella drammaticità del momento presente. Tuttavia la guerra, come era inevitabile, si avvia verso il suo epilogo tragico: l'8 settembre '43 avvia la spaccatura del Paese, apre la stagione della Resistenza e della lotta di liberazione. Il profondo clima di divisione che spacca l'Italia e che contrappone aspramente i militanti di opposte ideologie si riflette anche nel mondo della cecità: si costituiscono - e sono particolarmente attivi nell'ambiente fiorentino dove opera la Sede Centrale dell'Unione e l'Ente Nazionale di Lavoro - i gruppi antiunionisti che ingenerosamente accusano Nicolodi e la Dirigenza associativa di collaborazionismo, scambiando una inevitabile contiguità politica con una adesione ideologica che non fu mai espressa. Alla fine, anche per l'importante opera di mediazione svolta da alcuni uomini vicini alla base operaia in cui più radicata era la protesta antiunionista, la ragione prevale e l'unità si ricompone.
Il Paese, però, esce dalla guerra materialmente e ed economicamente distrutto: la fase della ricostruzione avrebbe chiesto a tutti enormi sacrifici, ma anche un radicale mutamento di impostazione culturale e di visione programmatica. In questo clima generalizzato di trasformazione in cui, dappertutto, si avverte la sofferenza e la gioia della rinascita, anche l'Unione Italiana dei Ciechi si rinnova e si affida a uomini nuovi. Si apre così la fase della Presidenza Bentivoglio.
Trasferita la Sede centrale dell'Associazione da Firenze a Roma, per renderla più vicina alle Istituzioni, avviata la pubblicazione di un organo ufficiale di stampa, Il Tiflologo, ribattezzato, poi, con la nota denominazione de Il Corriere dei Ciechi, con l'intento di diffondere all'esterno il programma associativo, l'Unione Italiana dei Ciechi stabilisce proficui contatti con l'Assemblea Costituente e offre il suo contributo per la definizione di alcuni articoli caratterizzanti della nuova Carta costituzionale, quali l'art. 3 e l'art. 38, impegnandosi da subito nella individuazione di alcune linee essenziali del nuovo Stato democratico e solidarista. Tuttavia i contenuti socialmente più avanzati della Carta costituzionale restano, in quegli anni, una mera enunciazione programmatica espressione di una rivoluzione promessa, vagamente compensativa di una rivoluzione mancata. La vita reale dei ciechi italiani resta, pertanto, enormemente lontana da quell'orizzonte di "pari opportunità" indicato dalla nuova Costituzione e si dibatte nel dramma della miseria e della disoccupazione.
Venute meno le richieste legate alla produzione bellica l'Ente Nazionale di Lavoro per Ciechi, costretto, peraltro, ad affrontare le nuove condizioni di mercato determinate dal rientro dei reduci, riduce notevolmente le sue capacità occupazionali, mentre coloro che escono dagli istituti non riescono a trovare uno sbocco lavorativo. Né esiste un accettabile riconoscimento economico della minorazione visiva, al di là del modestissimo assegno alimentare. In questo clima di disperazione e di consapevolezza si compie la "marcia del dolore" che porterà un gruppo di non vedenti coraggiosi a sfilare a piedi, per le strade del centro Italia da Firenze a Roma, sorprendendo l'opinione pubblica e il mondo politico. L'evento era stato avviato da ambienti esterni all'Unione, ma concepito e concretizzato sotto la sapiente regia di Paolo Bentivoglio e della Dirigenza associativa che, alla fine, riesce a piegare le ostinate resistenze governative. Sulla base, così, di una maggioranza politicamente anomala per quegli anni, uno schieramento transpartitico che condivide l'impostazione di alcuni uomini politici, quali Orazio Barbieri, Giovanni Pieraccini e Giorgio La Pira determina l'approvazione della prima legge che riconosce l'incidenza economica della minorazione visiva.
Il primo passo verso il superamento di una concezione pietistica dell'assistenza e verso la realizzazione dello stato sociale era compiuto. Parallelamente si moltiplicano gli sforzi per adeguare i programmi di insegnamento degli istituti alle nuove esigenze soprattutto sul piano della formazione professionale, in vista del raggiungimento di importanti traguardi sul piano occupazionale. Si perviene così al varo di alcune leggi sul collocamento dei centralinisti telefonici, dei massaggiatori (come allora si chiamavano) e degli insegnanti, vere e proprie pietre miliari per il superamento della emarginazione e per l'affermazione della dignità dei non vedenti. Istruzione, assistenza, lavoro costituivano da sempre il trinomio programmatico dell'Associazione: durante gli anni della Presidenza Bentivoglio costituiscono anche le coordinate di un percorso che ha condotto i privi della vista al raggiungimento di significativi traguardi.
La Presidenza Bentivoglio si chiude quando ormai nell'aria si avvertono i prodromi della tempesta che per un decennio avrebbe agitato e scosso la società italiana.
Sarebbe toccato a Giuseppe Fucà guidare l'Unione attraverso questa tempesta e cogliere la direzione verso cui orientare una navigazione difficile, ma sempre sicura nelle mete da raggiungere e negli obiettivi da conseguire. Le passioni ideologiche del '68, nella loro frenesia rinnovatrice, puntano a scuotere dalle fondamenta l'edificio politico e sociale esistente in nome di una utopia egualitaria che spesso rischia di appiattire le differenze e di confondere le specificità all'interno di un globalismo indistinto e astrattamente totalizzante. La lotta ad oltranza contro il "sistema" si esprime attraverso una contestazione radicale che mira ad azzerare l'esistente, ma che, spesso, manca, al di là degli slogans, di una alternativa realistica. Anche l'Unione entra nel vortice della contestazione e rischia di esserne travolta, in nome di alcune schematiche enunciazioni di principio: l'handicap in genere e, quindi, anche la cecità non è tanto una limitazione oggettiva quanto il prodotto di un determinato assetto sociale: è su di esso, pertanto, che occorre intervenire, ribaltando gerarchie consolidate e concezioni sclerotizzate che espellono ai margini della società tutti coloro che non incarnano i modelli imposti dai detentori del potere e dell'egemonia sociale. L'Unione Italiana dei Ciechi è, di fatto, essa stessa una organizzazione sclerotizzata funzionale alla logica della emarginazione e del mantenimento delle gerarchie sociali precostituite. Il processo di integrazione sociale deve essere guidato e realizzato dai pubblici poteri in una prospettiva di omogeneità che sconfigga le pratiche settorialistiche e le tentazioni corporative. Le scuole speciali sono ghettizzanti e vanno cancellate in nome di un pieno inserimento di tutti i portatori di handicap nella scuola di tutti. L'epoca dell'autogestione dell'handicap da parte di coloro che ne sono portatori è finita in nome di una gestione pubblica del disagio sociale che implica la rinuncia dei disabili ad essere protagonisti delle proprie scelte per diventare destinatari di più eque e competenti scelte altrui.
L'Unione di Fucà, tuttavia, resiste: accetta la trasformazione da Ente di diritto pubblico ad Ente di diritto privato; si adegua alla struttura regionalistica che il Paese viene assumendo alla metà degli anni '70 scorgendo in essa una ricchezza da valorizzare, piuttosto che una sciagura da respingere; si impegna fortemente per l'integrazione scolastica, pur denunciando la mancanza di una adeguata strategia politica e pedagogica; strappa, infine, al Parlamento e al Governo una grande vittoria con il conseguimento dell'indennità di accompagnamento al puro titolo della minorazione.
Quando Giuseppe Fucà lascia la presidenza attiva dell'Associazione, poco prima della sua prematura scomparsa, il tramonto dell'illusione che aveva attraversato il decennio precedente è ormai evidente: il primato del pubblico e la filosofia dei servizi, frutto di un sociologismo astratto e disattento, più che di una mentalità autenticamente solidaristica, stavano naufragando sull'onda di una disgregazione sociale sempre più vistosa che aveva raggiunto il culmine con le gesta del terrorismo e alle attese messianiche della palingenesi subentrava l'egoistico riflusso nel proprio privato, malinconico preannuncio di un progressivo disimpegno delle istituzioni dalle problematiche più scottanti della società civile. Anche per l'Unione s'imponeva una riflessione, un mutamento di strategia capace di interpretare la transizione e di offrire risposte adeguate.
Roberto Kervin, che fu alla guida dell'Associazione nella prima metà degli anni '80, anziché approfondire i termini di tale interpretazione e formulare una coerente impostazione programmatica, attraverso gli strumenti del dibattito interno, della comunicazione e del dialogo all'esterno, preferì optare per la divisione all'interno e lo scontro all'esterno. Il linguaggio associativo ufficiale si fa aspro ed esaspera orgogliosamente una sorta di patriottismo associativo che spesso manca di realismo, accreditando un'immagine di forza che rischia, talvolta, di porsi come il surrogato di una diffusa consapevolezza di disorientamento e di oggettiva debolezza. Non manca qualche successo, come quello rappresentato dalla ben nota legge 113 del 1985, ma nel complesso la tenuta associativa appare piuttosto fragile.
Sarebbe toccato a Tommaso Daniele, Presidente dell'Unione a partire dall'86, l'arduo compito di ricostruire l'unità interna e di rilanciare all'esterno l'immagine dell'Associazione. Il primato del dialogo, il contatto costante e organico con la periferia, l'attenzione a nuovi soggetti associativi, quali le donne e i giovani, la comunicazione attiva con l'opinione pubblica e la società civile, il confronto pacato e convincente con le forze politiche, la mappatura attenta dei bisogni emergenti, l'apertura alle nuove tecnologie, il senso dell'immagine del non vedente e dell'Associazione, la ricerca di nuovi spazi che consentano all'Unione di erogare quei servizi che le istituzioni continuano a negare, la difesa ad oltranza delle conquiste irrinunciabili costituiscono le linee guida di una presidenza che ha progressivamente modernizzato la struttura associativa affiancando al tradizionale ruolo di rappresentanza quello della gestione dei servizi. Il fulcro della nuova politica dei servizi è l'I.Ri.Fo.R. che, nel corso della sua breve vita, sostenuto finanziariamente da una legge fortemente voluta dall'Unione, ha svolto una ingente mole di lavoro nei tre settori che lo caratterizzano della ricerca, della formazione e della riabilitazione. Esso ha consentito la diffusione dell'informatica fra i privi della vista, ha formato gli operatori largamente utilizzati, poi, per la organizzazione di numerosi corsi di orientamento e mobilità, nonché di autonomia personale, ha inaugurato, primo nel mondo, un progetto formativo per giornalisti non vedenti, ha sperimentato nuovi profili professionali, ha aperto, insomma, al centro come alla periferia, nuovi orizzonti e soddisfatto nuovi bisogni in un momento storico in cui sempre più acuta è da parte dei non vedenti la sensibilità per la qualità della vita e la soluzione dei problemi legati alla quotidianità esistenziale e all'autonomia da tutte le forme di condizionamento prodotte dalla minorazione.
Ma, nell'ambito dei servizi determinanti sono stati i risultati conseguiti per il Centro Nazionale del Libro parlato, sostenuto finalmente da una legge che ne garantisce uno stabile finanziamento, dalla Biblioteca Italiana per i Ciechi, dalla Federazione Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi, dalla Sezione Italiana dell'Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità, strutture, queste ultime, esterne all'Unione, ma ad essa legate in uno sforzo sinergico di cui l'Unione stessa costituisce il polo aggregante.
Né mancano, negli anni che scorrono attraverso gli ultimi tre Congressi nazionali, importanti successi sul terreno tradizionale della rappresentanza, dalla Legge 120 che apre ai non vedenti le porte della carriera direttiva, alla Legge 29 che tutela i diritti dei terapisti non vedenti della riabilitazione in un orizzonte, peraltro bisognoso ancora di una sistemazione organica, alla Legge 284/98 che delinea nuove prospettive per i ciechi pluriminorati e per gli ipovedenti.
Ma questi e altri risultati tanto significativi non sarebbero stati raggiunti senza il consenso che l'Unione è riuscita a guadagnarsi attraverso la visibilità della propria immagine e alla costante opera di promozione affidata ai Raid, ai Premi Braille e alla mostra "Dialogo nel buio" e all'ambulatorio mobile per la prevenzione della cecità. L'Unione di oggi ha saputo, dunque, felicemente coniugare la modernità dei suoi obiettivi alla modernità della sua impostazione strategica e alla capacità di comunicare all'esterno, quanto all'interno, attraverso i più efficaci strumenti, dalla stampa associativa rinnovata ad internet. Muovendo da queste realizzazioni e dalla consapevolezza delle profonde trasformazioni in atto nel Paese ispirate al principio del pubblico risparmio, ma anche a concetti come quelli di decentramento e sussidiarietà, il Congresso del '97 ha lanciato la sfida di una Rivoluzione copernicana che ha come fulcro l'efficienza e la funzionalità delle strutture periferiche chiamate a svolgere compiti nuovi e determinanti. Su questo terreno, ne siamo certi, si giocherà l'avvenire dell'Unione Italiana Ciechi che ha dinanzi a sé ancora molti obiettivi da raggiungere specialmente nell'ambito dell'integrazione scolastica e della formazione professionale, del lavoro, del recupero dei ciechi pluriminorati, della riabilitazione degli ipovedenti, degli anziani.
Solo un forte spirito di coesione e uno spiccato senso di appartenenza sostenuti dalla competenza dei dirigenti periferici potranno garantire il raggiungimento dei risultati e l'efficacia di una regia già tracciata e lucidamente interpretata dalla Presidenza e dalla Direzione Nazionale.
La Biblioteca Italiana per i Ciechi
La prima biblioteca per i ciechi fu fondata a Firenze, per iniziativa della Regina Margherita di Savoia, alla fine dell'Ottocento: essa, però, non riuscì a svilupparsi. Fu, poi, l'Unione Italiana dei Ciechi a fondare a Genova la Biblioteca italiana per i ciechi, destinata, invece a svolgere un ruolo determinante per l'accesso dei ciechi alla cultura. Trasferita, dopo pochi anni a Milano e poi nella Villa Reale di Monza, al fine di preservarla dai bombardamenti nel 1943, è, attualmente, ospitata in un moderno palazzo nei pressi del centro di Monza.
La Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita", la principale biblioteca del settore in Italia, possiede, oggi, un ingente patrimonio librario differenziato (volumi Braille, audiocassette, testi su supporto informatico, testi a caratteri ingranditi ad uso degli ipovedenti), che ammonta a circa cinquantamila titoli, frutto di un lungo e paziente lavoro. L'opera di trascrizione, infatti, ha seguito lo sviluppo della tecnologia ed è stata compiuta, inizialmente, attraverso l'uso delle tavolette Braille, poi delle macchine dattilografiche e, solo in anni più recenti, attraverso l'uso delle macchine punzonatrici e delle presse, cui è seguita l'introduzione delle stampanti su carta strettamente collegate alla utilizzazione del computer. Lo scopo istituzionale della struttura è identificabile nel soddisfacimento delle esigenze culturali e di apprendimento dei minorati della vista, le cui richieste vengono evase attraverso un capillare servizio di prestito che raggiunge gli utenti a domicilio e che si articola attraverso un'offerta vasta e articolata comprendente testi letterari e scientifici, periodici e spartiti musicali, tutti disponibili, oggi, in una tiratura adeguata alla domanda dell'utenza. La biblioteca è fortemente impegnata anche nella diffusione della cultura tiflologica e nel sostegno all'integrazione scolastica.
Nel primo settore occorre ricordare l'istituzione del Centro di Documentazione Tiflologica di Roma, biblioteca specializzata sul versante della tiflologia, e la pubblicazione di opere tiflologiche in nero destinate agli specialisti, ai ricercatori e agli operatori scolastici.
Nel secondo settore, occorre ricordare l'istituzione di tredici Centri di Consulenza Tiflodidattica, che si affiancano ai tre Centri della Federazione Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi e si avvalgono di personale specializzato, cui è affidato il delicato compito di offrire consulenza alle famiglie, alla scuola, alle Aziende Sanitarie Locali e agli alunni minorati della vista.
La Biblioteca, inoltre, ha stipulato una convenzione con l'A.N.C.I. (Associazione Nazionale Comuni Italiani) per la trascrizione dei testi scolastici e con l'Associazione Italiana degli Editori che consente la diffusione dei prodotti editoriali nei formati più idonei a consentirne la fruizione da parte dei minorati della vista.
Riferimenti bibliografici
Ceppi, E. (1981). I minorati della vista. Roma: Armando.
Galati, D. (a cura di) (1996). Vedere con la mente. Milano: Franco Angeli.
Monti, C. (1994). Quando la cronaca diventa storia: la lezione del '54. Firenze: UIC.
Monti, C. (a cura di) (1997). Antologia del Corriere dei Ciechi: una voce al servizio di un'idea. Roma: I.Ri.Fo.R.
Monti C., (1997). Una Presidenza per una società che cambia. Il Corriere dei Ciechi, 52 (19), 2-10.
Monti, C. (2000). In cammino verso il traguardo delle pari opportunità: la rivoluzione culturale dell'Unione Italiana dei Ciechi. Roma: UIC.
Da Carlo Monti "Le istituzioni dei ciechi"
Carlo Monti, è docente di filosofia e presidente del Consiglio Regionale Toscano dell'Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti